L’art. 131 bis codice penale è stato introdotto dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, in attuazione di una delega contemplata all’art. 1 co. 1, lett. m, della l. 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio). Trattasi di una causa di esclusione della punibilità, atteso che il fatto di reato, nei suoi elementi essenziali, è comunque sussistente.

L’istituto non presenta difficoltà interpretative in relazione ai limiti edittali: deve trattarsi di un reato per il quale è prevista la pena detentiva non superiore a cinque anni (se in forma tentata, si farà riferimento alla cornire edittale del tentativo), ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena: non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle autonome o ad effetto speciale.
La gravità dell’offesa non deve raggiungere nella fattispecie concreta un livello tale da legittimare il ricorso alla pena: il magistrato è così chiamato a farsi interprete nella specifica vicenda di una logica di meritevolezza di pena, di quella stessa logica, cioè, che ispira il principio politico-criminale di proporzione.
Va altresì sottolineato che, richiamando non solo l’esiguità del danno o del pericolo, ma anche le modalità della condotta, la legge ammette di attribuire rilievo anche a componenti “soggettive” del reato, se e in quanto una particolare connotazione del dolo o della colpa si rifletta nella condotta. La norma, poi, al secondo comma, prevede alcune situazioni preclusive.
In aggiunta alla tenuità dell’offesa, ai fini dell’esclusione della punibilità la legge richiede che il comportamento non risulti abituale, nel senso esplicitato dal quarto comma dell’articolo.

Nel silenzio della legge l’istituto deve ritenersi applicabile anche quando il fatto di lieve entità integri un’autonoma figura di reato: un caso rilevante è quello previsto all’art. 73, co. 5, T.U. Stupefacenti. Analogamente, possiamo allora invocare la nuova causa di esclusione anche quando la fattispecie sia implicitamente di “lieve entità” rispetto ad una condotta concreta più grave, non essendo certamente necessaria un’esplicitazione del sintagma “lieve entità” nel corpo testuale della norma. Si pensi a quando sia possibile configurare un rapporto di genus a species, per esempio tra le fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale (art. 216, co. 1, n. 2, L.F.) e di bancarotta semplice documentale (art. 217, co. 2, L.F.).
Segnatamente, l’art. 217, co. 2, L.F. prevede l’applicazione della pena della reclusione da sei mesi a due anni al fallito che, durante i tre anni antecedenti la dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.

Analizzando la nuova causa di esclusione della punibilità, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, Gruppo Penale dell’Economia, ha ritenuto di formulare al giudice, in un caso di bancarotta semplice documentale contestata a due soci, amministratori e legali rappresentanti di una società in nome collettivo, richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 411, co. 1 bis, codice di rito. La richiesta è stata accolta dal Giudice per le Indagini Preliminari, con decreto del 27 novembre 2015.
Ad essere valorizzati dalla magistratura torinese i seguenti indici: i) il rispetto del limite edittale; ii) le modalità della condotta prive di connotazione di gravità e di concreta idoneità lesiva del bene giuridico tutelato dalla norma; iii) la rimproverabilità minima e di natura sostanzialmente colposa; iv) l’occasionalità della condotta illecita, considerando anche la natura formale del reato e lo stato di incensuratezza delle persone indagate.

Tale conclusione appare condivisibile in tutte quelle ipotesi, frequenti nella prassi, che presentano gli indici sopra elencati: l’interprete, comunque,  deve pur sempre analizzare la fattispecie concreta e rapportarla a quella astratta, tenuto conto dei punti nodali di quest’ultima.
Infatti, nella bancarotta semplice documentale, prevista dall’art. 217, co. 2, L.F., è bene considerare il bene giuridico tutelato dalla norma che, secondo la tesi prevalente, consiste nell’amministrazione della giustizia, in quanto posto a tutela dell’interesse processuale alla ripartizione dell’attivo, se esistente, secondo i criteri della par condicio.
Altro punto nodale è la natura di reato di pericolo presunto della bancarotta semplice documentale, da interpretarsi alla luce del principio costituzionale dell’offensività necessaria della condotta. Vero che nella bancarotta semplice documentale una più avanzata tutela potrebbe trovare giustificazione nell’interesse all’ostensibilità e alla conoscenza del patrimonio; vero è anche, nondimeno, che tale interesse è pur sempre strumentale a quello del soddisfacimento dei creditori, per la cui tutela è appunto predisposta l’incriminazione dei fatti di bancarotta. In questo senso, dunque, sono auspicabili interpretazioni delle norme conformi alla Costituzione, in funzione selettiva dei fatti penalmente rilevanti (si pensi, ad es., alla falsa testimonianza su circostanze ininfluenti sul processo decisionale del giudice; alla frode processuale priva di idoneità ingannatoria; alla calunnia quando sia impossibile l’inizio di un procedimento penale per manifesta infondatezza dell’addebito). Tali letture accolgono altresì quanto affermato dalla Corte Costituzionale (per es. Corte Cost., 7 luglio 2005, n. 265), che ha attribuito al principio di offensività rango costituzionale sia per il legislatore, sia, quale criterio interpretativo applicativo, per il giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamnte leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato. Sulla stessa linea la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (18 luglio 2013, n. 40354) secondo cui “L’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi…Insomma, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile, senza scarti di sorta, la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto“.
Ulteriore tematica cui far cenno, ai fini dell’applicazione della particolare tenuità del fatto, è la componente soggettiva della condotta concreta. E’ notoria la divergenza tra giurisprudenza e dottrina sulla natura dolosa o colposa della bancarotta semplice documentale. Mentre per la prima è indifferentemente punibile l’agente purchè sia predicabile almeno la colpa, per la dottrina maggioritaria il reato in esame ha natura eminentemente dolosa. Senza approndire questa annosa problematica, è evidente che sarà più agevole invocare la causa di esclusione della particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. in presenza di un atteggiamento meramente colposo dell’indagato.
Infine, un ulteriore indice, che non ha trovato esplicitazione nella decisione in commento, riguarda l’affidamento della contabilità a terzi soggetti. Per la giurisprudenza, nel caso in cui l’imprenditore abbia delegato a terzi – dipendenti o liberi professionisti – la tenuta delle scritture contabili, l’obbligo di regolare tenuta continua ad incombere in capo all’imprenditore sotto forma di dovere di vigilanza e controllo sull’attività svolta dalla persona delegata, anche se si tratti di persona specializzata, a nulla rilevando che l’imprenditore fallito si sia mantenuto estraneo alla amministrazione dell’azienda. Anche a voler rimanere sul terreno dell’ipotesi colposa, le conclusioni a cui perviene la giurisprudenza appaiono però in contrasto con una realtà dalla quale il giurista non può certo fare astrazione. E’ un dato di comune esperienza che l’imprenditore affida la tenuta dei libri ad un esperto proprio perché sa di non essere in grado di tenerli, di modo che si finirebbe per imputare ad una persona che non ha l’obbligo di essere esperta in contabilità, di non essersi resa conto che la contabilità non era tenuta secondo regole di perizia tecnica. In ogni caso, se è vero che la legge obbliga l’imprenditore a tenere i libri, ciò non significa che debba essere egli stesso a custodire personalmente i libri e ad eseguire materialmente le annotazioni. Pertanto, non può esser punito l’imprenditore per il solo fatto di aver affidato la tenuta dei libri ad altre persone. Se il terzo è stato scelto con la dovuta cura, tenendo conto delle sue capacità professionali, appare pienamente giustificato ricorrere al principio dell’affidamento che è ampiamente applicato proprio nel campo della responsabilità colposa. Tale principio varrebbe ad escludere l’obbligo per l’imprenditore di controllare la regolare tenuta della contabilità da parte del terzo e quindi anche la conseguente ed automatica culpa in vigilando.
Se tuttavia l’elemento psicologico del reato di bancarotta semplice documentale, nella declinazione colposa, venisse ritenuto sussistente, è evidente che un corretto affidamento della contabilità a terzi, nei termini suddetti, dovrebbe pur sempre condurre a concedere al soggetto agente la nuova causa di esclusione della particolare tenuità del fatto.